di Davide Amerio
Da quali oscuri luoghi della mente origina il pensiero razzista? La tragica, violenta, immorale, morte di George Floyd ha scatenato nel mondo proteste, sit-in, e persino violenze. La questione del razzismo torna alla ribalta delle cronache, ancora una volta a seguito di avvenimenti drammatici.
Il razzismo è un pensiero, una convinzione, un discorso e una pratica politica. Le scienze sociali, da decenni almeno, così come quelle biologiche, hanno dimostrato l’inconsistenza di questo pensiero. La tesi della ‘razza’ non sussiste, non ha alcuna validità scientifica; semmai si può parlare di ‘etnie’, individuando gruppi sociali sulla base delle loro provenienza geografica originaria, ma nessun studioso serio azzarderebbe oggi un discorso di razze, sostenendo esista una separazione ‘scientifica’ tra razze superiori e inferiori.
Qual’è dunque il fondamento del razzismo? Perché continua ad essere così presente nella nostra società? Si possono dare due risposte: una culturale e storica, l’altra prettamente politica (e strumentale).
La prima attiene a quella narrazione creata dal mondo occidentale, quello così detto sviluppato, verso il “terzo mondo”, inteso come “non sviluppato”, in quanto diverso dal nostro.
Con il colonialismo nasce l’esigenza di un pensiero che giustifichi l’invasione di terre, mondi, paesi, altrui. Era necessario costruire una veste ‘morale’ allo spirito dell’esplorazione dello spazio terrestre, che si sposava con la necessità del capitalismo – in forte ascesa,- di conquistare spazi e risorse per ri-generarsi, e soddisfare la crescente domanda di beni al suo interno.
L’uomo “razionale” ed “evoluto”, occidentale, bianco, alla conquista del mondo sconosciuto. Uomo appunto, giammai donna: prima entità sociale discriminata dal pensiero maschile, e patriarcale. È lui, il maschio, che avoca a sé diritti e poteri su tutto ciò che è ‘altro’: femminile, natura, piante, animali, spazi, territori, paesaggi.
Dalle teorie aristoteliche degli uomini nati per “essere naturalmente schiavi”, a quelle sulla “arretratezza” di quei popoli definiti “primitivi”, diversi, biologicamente inferiori, “esotici”: tutto è stato rivolto all’unico obiettivo di definire una razza ‘superiore’, quella bianca (maschile), in lotta con quelle ‘inferiori’, arretrate, e selvagge.
Esportare la “civilizzazione” era la motivazione moralista con la quale ogni violenza, sopruso, sterminio, era giustificabile. Opera antesignana della contemporanea “esportazione della democrazia”, con analoghi effetti catastrofici di instabilità politica e sociale.
La menzogna si sosteneva sul principio che quei popoli, essendo “diversi” da noi, non erano ascrivibili al mondo civile, quello progredito, e ritenuto unico detentore legittimo del diritto di conquista, di qualsiasi spazio terrestre; tema funzionale alla creazione dello stereotipo dell’altro, del diverso, per validare una propria identità, creando il confine tra un “noi” e un “loro”.
Dei “primitivi” venivano ignorati gli usi e i costumi, le usanze, la cultura, le identità e le strutture sociali. Non erano uomini o donne; erano assimilati alle piante e agli animali. Erano figli di un Dio minore. Beni per il capitalismo predatorio che espropriava gli esseri umani della propria naturalità per renderli merce da accumulare, scambiare sul mercato, conquistare e possedere; in nome di un ipotetico diritto alla conquista concesso alla razza bianca.
Ogni anno si celebra, giustamente, il ricordo dello sterminio del popolo ebreo da parte del nazismo: una ferita nel cuore dell’Europa, da non dimenticare, che ha condannato a morte 6 milioni di persone.
Ma gli studi storici contemporanei stimano in 60 milioni gli esseri umani sterminati con le opere di colonizzazione dell’occidente. Intere civiltà spazzate via (come quelle degli Aztechi, dei Maya, degli Incas) dalla violenza dei “progrediti” occidentali, dallo schiavismo, dallo sterminio pianificato, dalle malattie importate dai colonizzatori.
Il razzismo fonda le sue radici su stereotipi che ignorano la storia; quella non scritta dai ‘vincitori’ ma da chi l’ha subita. Espungere le discriminazioni come pensiero formale, come normalità, dovrebbe essere l’obiettivo primario di una corretta educazione storica, sociale, e civile.
Ciò avviene in modo lento, perché quella storia, la “nostra storia”, di colonizzatori, non finisce dopo la II guerra mondiale, ma prosegue sino a lambire i primi anni ‘60 oltre gli ultimi fenomeni di decolonizzazione, che produssero indipendenza per i paesi occupati.
Quella storia è oggi mutata, ma prosegue, ammantata di nuove idee e giustificazioni. Il fenomeno della post-colonizzazione è contemporaneo, vive intorno a noi, nel capitalismo globale. La lotta per le risorse necessarie a mantenere in vita il capitalismo continua a mietere vittime nel silenzio e nell’indifferenza. La discriminazione, l’ineguaglianza, la povertà, la violenza, sono dentro il nostro mondo, inglobati nei prodotti che utilizziamo (dal carburante, al cibo, ai prodotti tecnologici).
Un costo, una esternalità negativa, di valore altissimo, che si riversa sugli altri e che, in parte, anche noi paghiamo indirettamente, senza consapevolezza: si chiama immigrazione, caporalato, criminalità, terrorismo, dittatura, miseria, razzismo, ineguaglianza, ingiustizia.
Perché nessun capitalista ti spiegherà mai il tuo ruolo di consumatore-carnefice-complice silenzioso di un meccanismo predatorio globale che favorisce sempre, alla fine, l’archetipo dell’uomo bianco, occidentale, di “razza superiore”.
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Associazione Articolo Tre
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