di Francesco Veronese.
Stalag 339 fu il nome assegnato dai nazisti all’unico lager allestito in Italia. La sua sede era a Trieste.
Dopo il proclama di Badoglio dell’otto settembre 1943, la Repubblica di Salò cedette al Terzo Reich una vasta area che comprendeva Udine, Gorizia, Trieste, Fiume, Lubiana e Pola. L’amministrazione nazista l’assunse direttamente sotto il suo controllo.
Nel quartiere di “San Saba”, esisteva un complesso di edifici destinati alla pilatura del riso, i nazisti la requisirono e la trasformarono in un ”Polizeihaftlager”. In pratica funzionava all’inizio come centro di rifornimento e di smistamento per il fronte tedesco in Istria.
Alla fine del 1943 fu trasformato in campo di concentramento e di transito per i prigionieri e poco dopo divenne un vero proprio “Verinichtungslager”, cioè un luogo di sterminio riservato ai prigionieri catturati in Friuli Venezia Giulia, in Istria e in Dalmazia. Vi morirono italiani, sloveni e croati. Erano partigiani, antifascisti, dissidenti politici ed ebrei. Le testimonianze parlano di circa 3000-5000 esecuzioni, senza contare i prigionieri che furono rinviati ad altri centri di sterminio. La risiera infatti funzionò anche come luogo di smistamento e di avvio all’eliminazione.
Più della metà dei convogli avviati dall’Italia verso i centri di sterminio nazisti, partirono da Trieste, compresi quelli destinati ai campi di lavoro. Furono più di 25000 i prigionieri finiti a Buchenwald, Dachau e Aushwitz. Tutta la documentazione amministrativa fu distrutta dagli stessi tedeschi prima che fosse possibile recuperarla.
La trasformazione in luogo di sterminio avvenne utilizzando l’essiccatoio della risiera, dai primi mesi del 1944, riadattandolo a forno crematorio. La costruzione fu sperimentata il 4 aprile 1944 con la cremazione di una settantina di cadaveri di ostaggi fucilati il giorno prima a Opicina, nei pressi di Trieste.
Vi erano celle dove i prigionieri venivano spogliati e torturati, poi passavano nelle celle successive dove rimanevano in attesa per settimane prima di essere deportati in altri centri di sterminio o essere ammazzati nella stessa risiera e poi cremati nel forno.
Per l’esecuzione si usavano diversi sistemi: l’impiccagione, la fucilazione, lo strangolamento. Venne trovata una mazza di ferro con cui si uccideva il malcapitato con un colpo alla testa. Furono usati anche gas velenosi, liberati in furgoni appositamente progettati.
Non tutti morivano subito così, quando erano gettai tra le fiamme, si udivano urla disperate che venivano coperte da rumori creati apposta. Nel cortile interno dell’edificio rimangono ancora oggi, molto ben visibili, i resti dell’impronta della costruzione che conteneva l’essiccatoio del riso, trasformato poi in forno crematorio.
Sotto il suolo, segnato da una riga nera che si congiunge con l’angolo opposto del cortile, nella foto visibile a sinistra, correva il camino che poi terminava connettendosi con la ciminiera costruita a ridosso della parete del cortile, non visibile nella foto. Il tutto è stato fatto saltare dai tedeschi, prima di fuggire, incalzati dai partigiani iugoslavi del nono Korpus. Tra le rovine si sono trovate ossa e ceneri, derivanti da combustione di carne umana, raccolte in sacchi di juta.
Si valuta che a Trieste gli ebrei fossero circa 5000, prima della proclamazione delle leggi razziali, avvenuta dal Duce in persona proprio a Trieste in piazza Unità d’Italia il 18 settembre 1938. È comprensibile che molti se ne fossero andati subito dopo, ma i rastrellamenti e le segnalazioni di delatori italiani riuscirono egualmente a mandarne in Risiera circa 700, di cui solo una ventina si salvò.
Sembra quasi che con la Risiera di San Sabba la città di Trieste sia stata scelta dal destino a pagare immeritatamente per avere accolto la proclamazione delle leggi razziali. Eppure, ironia della sorte, i suoi cittadini erano stati abituati, da generazioni, a convivere pacificamente con genti di razze, di lingue e di religioni diverse, data la loro ubicazione vicina a un crocevia di confini di Stati diversi. Avevano sempre considerato tutto questo un privilegio di cui essere fieri, un’importante ricchezza culturale. Anche i vantaggi economici non erano mancati e niente, se non la violenza e la prevaricazione nazista, avrebbe mai potuto spingerli a tollerare tanta efferatezza.
Pino Robusti era un ragazzo di 23 anni. In aprile del 1945 era in Pazza Oberdan a Trieste, aspettava la sua ragazza che tardava ad arrivare. Fermato nel frattempo dai nazisti, gli trovarono in tasca una tessera di lavoro obbligatorio, questo bastò per arrestarlo e rinchiuderlo nel carcere del Coroneo, in quanto assente dal lavoro coatto. Fu inviato alla Risiera di San Sabba assieme ai detenuti politici. Disperato, comprese ben presto la sorte che gli sarebbe toccata, riuscì a scrivere una lettera alla sua ragazza e, chissà come, a fargliela recapitare. È stata pubblicata, a Trieste è diventata famosa.
Oggi, chiunque passi per Piazza Oberdan, può vedere un monumento eretto alla memoria dei due giovani innamorati. Leggiamo la lettera insieme, ne vale la pena. È commovente e aiuta a non dimenticare. Soprattutto è un’ulteriore occasione di riflessione, dopo le 98 astensioni al Senato (Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia) nella votazione sull’istituzione della commissione parlamentare contro l’antisemitismo e l’odio razziale, proposta dalla senatrice a vita Liliana Segre.
Trieste 5 aprile 1945
Laura mia,
mi decido di scrivere queste pagine in previsione di un epilogo fatale e impreveduto. Da due giorni partono a decine uomini e donne per ignota destinazione. Può anche essere la mia ora. In tale eventualità io trovo il dovere di lasciarti come mio unico ricordo queste righe.
Tu sai, Laura mia, se mi è stato doloroso il distaccarmi, sia pure forzatamente da te, tu mi conosci e mi puoi con i miei genitori, voi soli, giustamente giudicare. Se quanto temo dovrà accadere sarò una delle centinaia di migliaia di vittime che con sommaria giustizia in un campo e nell’altro sono state mietute.
Per voi sarà cosa tremenda, per la massa sarà il nulla, un’unità in più in una cifra seguita da molti zeri. Ormai l’umanità si è abituata a vivere nel sangue. Io credo che tutto ciò che tra noi v’è stato, non sia altro che normale e conseguente alla nostra età, e son certo che con me non avrai imparato nulla che possa nuocerti né dal lato morale, né dal lato fisico. Ti raccomando perciò, come mio ultimo desiderio, che tu non voglia o per debolezza o per dolore sbandarti e uscire da quella via che con tanto amore, cura e passione ti ho modestamente insegnato.
Mi pare strano, mentre ti scrivo, che tra poche ore una scarica potrebbe stendermi per sempre, mi sento calmo, direi quasi sereno, solo l’animo mi duole di non aver potuto cogliere degnamente, come avrei voluto, il fiore della tua giovinezza, l’unico e più ambito premio di questa mia esistenza.
Credimi, Laura mia, anche se io non dovessi esserci più, ti seguirò sempre e quando andrai a trovare i tuoi genitori, io sarò là, presso la loro tomba ad aiutarti e consigliarti.
L’esperienza che sto provando, credimi, è terribile. Sapere che da un’ora all’altra tutto può finire, essere salvo e vedermi purtroppo avvinghiato senza scampo dall’immane polipo che cala nel baratro.
E’ come divenir ciechi poco per volta. Ora, con te sono stato in dovere di mandarti un ultimo saluto, ma con i miei me ne manca l’animo, quello che dovrei dire a loro è troppo atroce perché io possa avere la forza di dar loro un dolore di tale misura. Comprenderanno, è l’unica cosa che spero. Comprenderanno.
Addio, Laura adorata, io vado verso l’ignoto, la gloria o l’oblio, sii forte, onesta, generosa, inflessibile, Laura santa. Il mio ultimo bacio a te che comprende tutti gli affetti miei, la famiglia, la casa, la patria, i figli.
Addio
Pino
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