di Davide Amerio.
Chi non ha mai letto, o visto più volte il film (sopra tutto quando hai figli piccoli), o ascoltato, la storia di Cenerentola? Una delle fiabe più conosciute, si potrebbe dire. La bella e giovane ragazza che, avendo perso i genitori, rimane succube – schiava,- nella sua casa, di cui un’arcigna matrigna ha preso possesso. Trattata come serva da lei, e dalle tre sorellastre (piuttosto bruttine), sogna l’amore e la fuga da quella realtà che non le appartiene, e non sente di meritare.
Giungerà la Fata madrina in suo soccorso, quando, dopo aver conosciuto per caso il suo principe azzurro, ci vorrà un bel po’ di magia per consentirle di partecipare al gran ballo di corte, in onore dell’erede al trono, obbligato a conoscere le potenziali candidate a futura regina. Galeotta sarà la scarpetta, la ricerca in ogni angolo del regno dell’amata fuggita sulla carrozza-zucca, e via narrando; sino al gran finale del ‘e vissero felici e contenti’, con la meritata punizione all’odiosa matrigna e alle sue figlie. Fine; applausi; commozione.
Le storie, le fiabe, sempre a lieto fine, accompagnano la nostra fanciullezza: in essa il bene trionfa sempre, la giustizia non manca mai, l’amore risolve tutto. Ci sono gli eroi e le eroine che raggiungono mete ardue: la conquista della libertà, la rivalsa verso un prepotente, o la conquista dell’amore assoluto. Dopo aver sconfitto tutti gli antagonisti possibili, compiuto imprese inimmaginabili, rischiato la vita in modi che nemmeno un gatto, con le sue nove vite, si arrischierebbe, alla fine la vittoria arride agli audaci protagonisti.
Questo bisogno di vittoria dei valori positivi, di sconfitta delle ingiustizie, di superamento delle difficoltà, di eroi ed eroine che ci mostrino la sconfitta del male (o di ciò che consideriamo tale), non ci abbandona mai. La TV è infarcita di film e telefilm dove la violenza e le crudeltà più terribili vengono sempre soppresse: un’offerta continua di catarsi dalle brutture quotidiane, un po’ di ossigeno e, sopra tutto, di speranza (ma quanto vera?) per convincerci che, non ostante tutto, il bene trionfa sempre.
La realtà è un po’ diversa. Su RAI Play, in questi giorni, la proposta di un film indiano, dal titolo eloquente “Sir – Cenerentola a Mumbai”, offre uno spaccato diverso del nostro mondo: una luce cruda sulle verità banali della discriminazione – reale,- che vivono le persone su questo pianeta. Per loro non c’è lieto fine. Non ci sono Fate Turchine, simpatici topini operosi, e uccelli canterini a farti compagnia.
La storia ha un tracciato classico, ma con variazioni della cruda realtà. Lei è una giovane ragazza indiana rimasta vedova; vive nelle campagne con una famiglia povera, sogna di fare la stilista. Nel frattempo lavora in città, presso il figlio di una ricca famiglia (che chiama Sir, come le donne di quel rango vengono chiamate Madame), che abita da solo, e ha rotto con la fidanzata a pochi giorni dal matrimonio (per un tradimento di lei).
Il film è lento, ripetitivo in certi passaggi, ma rende bene l’idea di una monotonia del vivere, di una quotidianità obbligata e priva di colore; del disagio sociale, della abissale separazione tra i ricchi e i poveri. Del servilismo cui sono costretti quelli di rango inferiore, sino a sconfinare nello sfruttamento e nella schiavitù, condita da disprezzo.
Come nelle fiabe migliori, un po’ alla volta, Sir si accorge di questa ragazza che lavora in silenzio e umiltà, ma custodisce dei sogni, delle ambizioni. Non è rassegnata alla sua condizione di eterna povera.
I silenzi si trasformano in parole; le parole danno corpo a dialoghi e, purtroppo per loro, in amore. Già…purtroppo! Perché in quella realtà, indiana nel film, ma potrebbe essere ovunque, la differenza sociale non ammette commistioni e frequentazioni tra ranghi differenti. Non ci sono Fate, animaletti parlanti, genitori e amici riluttanti ma, alla fine, comprensivi, perché l’amore trionfa sempre su tutto.
Lei è costretta, malgrado i suoi sentimenti, a respingerlo: perché la sua condizione di povertà è anche consapevolezza di come quella storia sia impossibile. Lui è ricco, e comunque ne uscirebbe sempre meglio. Per lei ci sarebbero solo l’infamia, il ripudio della sua famiglia, del gruppo cui appartiene, per aver osato disubbidire alle rigide regole della società. La sua condizione di vedova già la mette ai margini della famiglia: non può comparire nelle foto del matrimonio della sorella, perché usa così, una vedova porta male. Se osasse amare qualcuno non del suo rango diventerebbe la sgualdrina del villaggio.
Nessuno avrebbe pietà o rispetto dei loro sentimenti: ricchi o poveri che siano gli interlocutori, violare i rapporti sociali di casta, o di rango, è un delitto imperdonabile.
Nessun lieto fine quindi. Lui rinuncia rassegnato: quando confida al padre di essersi innamorato la riposta che ottiene è il consiglio di partire per tornare in America dove ha studiato (e dimenticare). E così sarà. L’unico gesto d’amore che si può permettere è fare in modo che l’amata trovi un lavoro in un Atelier di moda a Mumbai per realizzare il suo sogno. Fine. Nessun applauso.
Certo non siamo tutti uguali a questo mondo. È probabilmente normale, e forse anche necessario, ciascuno si senta a suo agio vicino ai suoi pari, o simili. Di sicuro però, il male di questa umanità, continua ad essere il disprezzo per l’altro da sé. Il diverso, il subalterno, il nemico.
Che si parli di posizioni sociali, di sentimenti, di sesso, il razzismo si nutre di questo ingiustificato disprezzo verso il prossimo. La costruzione delle categorie sociali è la minaccia maggiore alla condizione di umanità cui ad alcuni piace molto richiamarsi, per sentirsi più buoni e migliori.
Le peggio tragedie umane sedimentano su questo terreno di coltura, che finisce per giustificare ogni infamia e, sopratutto, limita lo sviluppo umano creando ghetti morali e materiali.
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Associazione Articolo Tre
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